Cosa c’entra Quasimodo con Jacopo della Quercia?
C’era una volta una giovane marchesa di nome Ilaria. Suo padre, Carlo I del Carretto marchese di Zuccarello, la diede in sposa a Paolo Guinigi, signore di Lucca. Era l’anno 1403. Ilaria aveva 24 anni.
Il 24 settembre 1404 nacque da questa unione Ladislao Guinigi.
A fine novembre del 1405 è la volta di Ilaria Minor. Ma lei, Ilaria del Carretto, non superò le complicanze del parto e morì pochi giorni dopo, l’8 dicembre.
Il cronista di Paolo Guinigi, tale Sercambi, disse che “il predicto signore suo marito fu sommamente doglioso“. Per questo, racconta Vasari, “fece per la moglie che poco inanzi era morta, nella chiesa di San Martino una sepoltura; nel basamento della quale condusse alcuni putti di marmo che reggono un festone tanto pulitamente, che parevano di carne, e nella cassa posta sopra il detto basamento fece con infinita diligenza l’immagine della moglie d’esso Paulo Guinigi che dentro vi fu sepolta; e a’ piedi d’essa fece nel medesimo sasso un cane di tondo rilievo, per la fede da lei portata al marito.”
Vasari parlava di uno dei monumenti funebri più conosciuti, realizzato tra il 1406 e il 1408 dallo scultore senese Jacopo della Quercia e conservato ancora nella Cattedrale di San Martino, a Lucca. Ma della bella Ilaria in quel sarcofago c’è solo l’immagine perché le sue spoglie sarebbero sepolte nella chiesa di Santa Lucia.
L’opera di Jacopo è straordinaria per il senso di armonia che emana quella giovane donna dormiente, per l’idealizzazione unita a tratti teneramente umani.
È eccezionale anche perché lo scultore scelse una tipologia di monumento che prima di allora si usava solo per i regnanti. A tutti gli altri era concessa una lastra pavimentale o un sarcofago da parete.
Nonostante fossero i primi anni del Quattrocento, il sarcofago ha già un respiro rinascimentale per quel fregio a puttini e festoni che gira attorno al voluminoso basamento. Ilaria, per contrasto, appare ancora più fragile e delicata.
Il suo volto sereno, sollevato su due cuscini, è incorniciato dalle ciocche di capelli ondulati e dalla voluminosa ciambella che la incorona. L’alto colletto cilindrico completa il ritratto con un tocco di regalità.
L’abito, stretto sotto il seno da una fascia, scende lungo il corpo con un morbido panneggio. Le mani non sono giunte in preghiera né tengono un vangelo ma sono poggiate, sovrapposte, sopra il grembo. Quasi a proteggere quel ventre che dando la vita le aveva dato la morte.
Ma l’elemento più commovente è ai piedi di Ilaria, dove un cagnolino – simbolo di fedeltà coniugale – la veglia accucciato sulle sue vesti.
Non è una novità. Il cane come simbolo di fedeltà compare nelle sepolture fin dal Medioevo, ma ancora prima, nel Mediterraneo antico, era già collegato all’oltretomba. Aveva la testa di cane selvatico l’egizio Anubi, dio dell’imbalsamazione, e di teste di cane ne aveva tre il mitico Cerbero, guardiano della porta degli inferi. E poi c’è quel cane di terracotta , guardiano del sonno eterno del romanzo di Camilleri, che rimanda invece a un passo del Corano.
Eppure il cane di Ilaria non ha nulla di allegorico. Sta là a guardarla, musetto in su, e possiamo essere certi che tra qualche secondo le si butterà addosso scodinzolando.
Ma torniamo indietro al titolo di questo post. Che c’entra Salvatore Quasimodo con tutto questo? C’entra, c’entra. Perché ad Ilaria del Carretto ha dedicato versi struggenti, che raccontano quanto di terribile e definitivo ci sia in quella figura.
Ma il poeta siciliano non è stato il primo né l’ultimo. Già Gabriele D’Annunzio, nel 1903, l’aveva descritta in una poesia dedicata alla città di Lucca con queste parole:
«[…] Ora dorme la bianca fiordaligi/ chiusa ne’ panni, stesa in sul coperchio / del bel sepolcro; e tu l’avesti a specchio / forse, ebbe la tua riva i suoi vestigi. / Ma oggi non Ilaria del Carretto / signoreggia la terra che tu bagni, / o Serchio […]»
Nel 1951, nella poesia “Appennino”, sarà Pier Paolo Pasolini a cantare le bella Ilaria come simbolo universale di una patria sconfitta:
… e Ilaria, solo Ilaria…
Dentro nel claustrale transetto
come dentro un acquario, son di marmo
rassegnato le palpebre, il pettodove giunge le mani in una calma
lontananza. Lì c’è l’aurora
e la sera italiana, la sua gramanascita, la sua morte incolore.
Sonno, i secoli vuoti: nessuno
scalpello potrà scalzare la moletenue di queste palpebre.
Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia
perduta nella morte, quando
la sua età fu più pura e necessaria.
Per Quasimodo, invece, Ilaria è simbolo di solitudine, di quella perdita di speranza che il poeta condivide con la fanciulla di marmo. La sua poesia, pubblicata nella raccolta “Ed è subito sera” del 1942, ha per titolo “Davanti al simulacro d’Ilaria del Carretto“. Non aggiungo altro.
Sotto la terra luna già i tuoi colli,
lungo il Serchio fanciulle in vesti rosse
e turchine si muovono leggere.
Così al tuo dolce tempo, cara; e Sirio
perde colore, e ogni ora s’allontana,
e il gabbiano s’infuria sulle spiagge
derelitte. Gli amanti vanno lieti
nell’aria di settembre, i loro gesti
accompagnano ombre di parole
che conosci. Non hanno pietà; e tu
tenuta dalla terra, che lamenti?
Sei qui rimasta sola. Il mio sussulto
forse è il tuo, uguale d’ira e di spavento.
Remoti i morti e più ancora i vivi,
i miei compagni vili e taciturni.
Ottimo, una buona sintesi di una scultura, di una donna e della sua vita.
EG
grazie, davvero interessante e suggestivo
bellissimo articolo emozionante ed esaustivo!!!
Grazie 🙂
Meraviglioso!!E’ questa la bellezza la passione e lo stupore che cerco di portare ai miei bambini piccoli a scuola …grazie per questo viaggio straordinario
Grazie a te 🙂
Bellissimo ed efficace. Mi sono innamorato di questa opera che pur conoscendola non aveva sfiorato la gioia dell’intelletto emotivo che tu hai saputo, con la tua bella e felice scrittura, a me dare.
Grazie mille Aurelio!
Grazie, Emanuela. Non sono stata mai a Lucca, ma la tua descrizione di Ilaria mi ha fatto vivere un attimo di presenza quasi fisica. Sono emozionata, ma anche tanto felice di averlo letto. Grazie di cuore.
Grazie a te, Rosa Maria. Appena puoi ti consiglio di visitare Lucca: per Ilaria, per le mura, per le chiese romaniche, per la piazza anfiteatro. È un vero gioiello!
Quanta serenità, quanta dolcezza e quanto amore.
Vero. In sintesi: quanta bellezza.
Grazie!
🙂
Bella lettura, grazie Emanuela!
E come cantava un altro poeta, per una diversa occasione, “… questo ricordo non vi consoli
quando si muore si muore soli“.
Ecco…
Grazie a te, Alessandro!
Ops! Ho messo un apostrofo di troppo!
Scusate!
Non me n’ero accorta… lo correggo io 😉
Grazie – un tuffo nel passato molto emozionante.
È stato emozionante anche per me raccontarlo. Grazie!