Frida Kahlo, le opere oltre il personaggio
Ci sono artisti la cui vita, specie se disastrata, è arrivata a mettere in secondo piano la produzione artistica assurgendo a vera opera d’arte.
È accaduto a van Gogh, “quello che si è tagliato l’orecchio”. È accaduto a Dalì, “Il folle”. Ma è accaduto soprattutto a Frida Kahlo, la pittrice messicana vittima di un fanatismo femminista che l’ha trasformata in bambolina, in gadget, in logo e in vestito di Carnevale…
Insomma da persona è diventata personaggio.
Suo malgrado è stata trasformata in un’icona e un simbolo di battaglie di ogni genere: esempio di resilienza, di emancipazione, di ribellione, di anticonformismo, di donna comunista. Certo, è stata tutte queste cose, ma la sua pittura racconta anche qualcosa di molto più intimo e basilare, il puro bisogno di vivere.
Quel bisogno compare improvvisamente nella sua esistenza, sotto forma di un tram che si schiantò contro l’autobus su cui viaggiava. Era il 17 settembre 1925. Frida aveva solo 18 anni ma l’incidente trasformò per sempre la sua vita, costringendola a una lunghissima degenza col busto ingessato (la spina dorsale si era fratturata in tre punti), a oltre trenta interventi chirurgici e a un’esistenza segnata dalla sofferenza.
Nella forzata immobilità del suo letto inizia a dipingere. E comincia con un autoritratto. I genitori, allora, le comprano un letto a baldacchino dotato di uno specchio sul soffitto per aiutarla a proseguire nella pittura.
“Dipingo autoritratti perché sono la persona che conosco meglio“, dirà Frida a proposito dei tanti quadri in cui raffigura se stessa. Ne realizzerà 55, oltre un terzo delle sue tele. La maggior parte sono primi piani, ma alcuni anche a figura intera.
E forse è stata proprio quest’insistenza sul suo volto a renderlo così riconoscibile e a portarne la successiva mercificazione. Le folte sopracciglia unite sul naso, quasi la sagoma di un uccello in volo, sono diventati un marchio di fabbrica, un simbolo di libertà tale da fare impallidire la S di Superman e la Z di Zorro!
Proviamo a osservarne uno. È del 1940. Frida porta al collo una collana di spine da cui pende, a mo’ di ciondolo, un colibrì con le ali aperte. Sulle sue spalle una scimmietta e un gatto nero e dietro di lei foglie verdeggianti su cui svolazzano farfalle di merletti e fiori con le ali. Il volto è frontale. L’artista ci guarda negli occhi, con un misto di orgoglio e rassegnazione.
Il dipinto è un condensato di simboli. C’è dentro un richiamo alla corona di spine cristiana che fa di lei una martire. Martire di un corpo fatto a pezzi ma anche di una storia d’amore tormentata con il pittore Diego Rivera. Ci sono richiami nell’acconciatura al folklore messicano che Frida contrapponeva all’oppressione colonialista.
In questa data Frida Kahlo ha già avuto tre aborti. Un dramma che l’artista aveva già raffigurato dopo la perdita del secondo bambino, nel 1932, con un altro autoritratto, distesa sul letto dell’ospedale Henry Ford.
Lo stile è quello un po’ naïf della pittura popolare, ma forse era l’unico linguaggio capace di raccontare in modo diretto ed essenziale un contenuto così tragico. I simboli, stavolta, sono molto più eloquenti.
Eppure Frida riesce ad andare avanti. “Non sono malata. Sono rotta. Ma sono felice, fintanto che potrò dipingere”, sostiene con fermezza. E, come una colonna classica fatta a pezzi, raffigura la sua colonna vertebrale in un altro autoritratto del 1944.
Ma la pittrice messicana non è solo questo. È capace di andare oltre il dolore del corpo e dell’anima e di guardare anche al dolore della società. Lo sente come un impegno morale: “Sono molto preoccupata per la mia pittura. Soprattutto voglio trasformarla in qualcosa di utile per il movimento rivoluzionario comunista, dato che finora ho dipinto solo l’espressione onesta di me stessa“.
È del 1933 un dipinto di condanna del capitalismo americano, conosciuto da vicino in un viaggio negli Stati Uniti con Rivera. “Il mio vestito è appeso là”, si intitola. Da convinta comunista non poteva non cogliere il ribaltamento dei valori della società americana e il contemporaneo azzeramento dei diritti umani. Ed erano ancora gli anni Trenta!
Il dipinto segue quello dell’anno precedente in cui Frida si era ritratta sul confine tra Messico e Stati Uniti, il limite tra una civiltà antica da proteggere e una moderna da arginare.
C’è poi una terza Frida. Quella del Surrealismo. Il costante uso di simboli e di immagini oniriche, aveva portato l’artista ad avvicinarsi inconsapevolmente al movimento francese tanto che quando, nel 1938, André Breton vide i suoi quadri le propose immediatamente di fare una mostra a Parigi.
Frida si reca nella capitale francese piena di entusiasmo: “Il surrealismo è la magica sorpresa di trovare un leone in quell’armadio in cui si voleva prendere una camicia“, scrive riprendendo un concetto caro ai Surrealisti (“bello come l’incontro fortuito su un tavolo operatorio di una macchina da cucire e di un ombrello”).
È di quegli anni il suo dipinto più surreale, Quello che l’acqua mi ha dato. Un autoritratto dei suoi piedi in una vasca piena di oggetti misteriosi.
Negli anni seguenti, però, Frida si allontanerà dal movimento, rifiutando nettamente l’etichetta di Surrealista. La sua pittura e i suoi simboli, infatti, non erano un modo per scavare nell’inconscio o produrre nonsense, ma una specie di lenta e continua terapia, una visualizzazione in forma simbolica di qualcosa di cui era pienamente cosciente. Dirà infatti “Hanno pensato che fossi una surrealista, ma non lo ero. Non ho mai dipinto sogni. Ho dipinto la mia realtà“.
I simboli tornano anche nelle opere più vitali come le nature morte che dipinge nel 1942 per il Presidente del Messico. Gioiose e colorate, alludono nelle loro forme carnose all’erotismo che muove il mondo (e per questo furono rifiutate dalla First Lady…).
Gli ultimi anni sono pieni di queste opere. Fresche, ricche di colore e di sapore.
Una specie di inno alla vita quando questa stava presentando il conto.
Ad agosto del 1953 Frida subisce l’amputazione della gamba destra per un’infezione che aveva provocato la cancrena. Muore il 13 luglio del 1954 a 47 anni di embolia polmonare, senza smettere mai di sentirsi viva fino all’ultima cellula.
E proprio “Viva la vida” si intitola il suo ultimo dipinto, realizzato pochi giorni prima di morire.
Non è un autoritratto o un’incubo doloroso, ma una succosa natura morta con angurie. Quasi a dire “la vita è questo, una fetta di anguria che dobbiamo succhiare fino all’ultima goccia”.
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Nota. “Viva la Vida!” è adesso anche un libro di Pino Cacucci e uno spettacolo tratto da quel monologo. Qui il trailer.
Il dolore genera solitudine ma è nella solitudine che troviamo ancora più vita…
Adoro Frida, in ogni sua forma! Grazie!
L’arte di Frida ti lascia sempre senza fiato. A raccontarla ci sono i suoi quadri, basta guardarli e puoi capire Frida. Grazie Emanuela. Lezione magistrale, come sempre.
A presto.
Grazie mille, Luisa!
Grazie .
Se qualcosa Frida impersonava, era certamente il dolore, la fatica comunque declinata di vivere. Averla trasformata in un idolo consumista è un’ingiuria ed un segno dei tempi. Non c’è autoritratto in cui accenni ad un sorriso. La sua arte la pone al di sopra delle correnti, anche se per noi è facile leggere come “surrealiste diverse delle sue opere, che per lei non erano sogno”. Il paragone con Van Gogh, a mio parere, è perfettamente calzante. Grazie per avercela presentata con la solita chiarezza, incisività e competenza.
Grazie come sempre, Ugo.