L’arte oltre la guerra: la ricostruzione di Varsavia con le vedute di Bellotto

Questa storia inizia a Venezia nel 1722, anno in cui nasce Bernardo Bellotto. Era il nipote del famoso Canaletto (lui era il figlio della sorella Fiorenza) e non a caso diventa anch’egli in breve tempo uno straordinario pittore di vedute, scorci urbani resi in maniera nitida e fedele alla realtà.

A sedici anni risulta già iscritto alla Corporazione dei pittori veneziani. A diciannove, nel 1740, su suggerimento dello zio, inizia a viaggiare per l’Italia. Passa per Firenze, Lucca, Livorno e Roma, città dove realizza numerose vedute portando questo genere fuori dai confini di Venezia.

A Firenze, tra le tante, dipinge il Ponte Vecchio con uno stile sicuro e limpido e con gli stessi accorgimenti usati dallo zio per le tele veneziane: la prospettiva decentrata per togliere rigidità all’immagine, il punto di vista rialzato per mostrare maggiore profondità e la cura fotografica per i dettagli.

A Lucca invece dipinge Piazza San Martino con il Duomo con uno straordinario rigore prospettico, tanto che il suo dipinto è perfettamente sovrapponibile a una fotografia.

Per ottenere questa precisione, Bellotto – come già Canaletto – utilizzava la camera ottica, una scatola portatile in legno composta da un obiettivo anteriore con lenti per la messa a fuoco, uno specchio interno inclinato di 45°, una finestra in vetro in corrispondenza dello specchio e uno sportello per fare ombra sul vetro.
Le immagini esterne, passando attraverso l’obiettivo, si proiettano capovolte sullo specchio. Questo riflette l’immagine verso la lastra di vetro dove appare in posizione corretta (ma destra e sinistra sono invertite). Qui l’artista può ricalcarne i contorni appoggiando sul vetro un sottile foglio di carta. 

A soli venticinque anni, nel 1747, il giovane Bernardo viene chiamato dall’Elettore di Sassonia Augusto III a Dresda, come pittore di corte. Su consiglio dello zio assume anch’egli il nome di Canaletto, una sorta di “marchio di qualità” per gli artisti della famiglia.

Diversamente dalla tradizione, però, non realizza i ritratti del principe e dei suoi familiari ma le vedute della città in ogni suo spazio. Riesce così a documentare anche gli episodi di cronaca come il crollo del westwerk (la facciata monumentale) della Kreuzkirche avvenuto nel 1765. Nel dipinto, il massiccio torrione appare sezionato verticalmente mentre ai suoi piedi si espande un cumulo di macerie. Tuttavia la scena è trattata con la stessa cura dedicata alle piazze e ai monumenti: la luce è cristallina, i particolari perfetti.

Dello stesso edificio aveva realizzato una veduta nel 1751, quando la massiccia facciata turrita era ancora in perfette condizioni.

Nel 1758, su invito dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, Bellotto si sposta a Vienna dove dipinge vedute della città e dei suoi monumenti.

Il suo stile diventa via via più contrastato e vivace rispetto a quello dello zio, come si può notare in questa veduta della chiesa dei Domenicani la cui ombra scura si proietta sugli edifici di fronte.

Dopo un passaggio a Monaco di Baviera e un ritorno a Dresda, Bellotto si trasferisce definitivamente a Varsavia. Qui ritrae la città con la precisione di un fotoreporter in ben 57 tele (e si spegne proprio nella città polacca nel 1780, all’età di 58 anni).
I suoi dipinti riescono a catturare anche lo spirito di quella splendida capitale: l’intreccio tra Barocco e Medioevo, la vitalità degli abitanti, il cielo e la sua luce.

Il buon Bellotto non avrebbe mai potuto immaginare che tutta quella bellezza un giorno sarebbe stata distrutta e che i suoi dipinti sarebbero serviti a ricostruire la città. Varsavia infatti è stata, tra tutte le città europee, quella colpita più duramente durante la Seconda Guerra Mondiale.

Si stima che oltre il 90% degli edifici sia stato devastato o gravemente danneggiato.

E non per via dei bombardamenti alleati, come per tante città italiane o tedesche, ma per la ritorsione dei nazisti contro la resistenza polacca e la rivolta di Varsavia del 1944. Hitler ordinò infatti di radere al suolo la città, casa per casa, come dimostrazione e monito.

Al termine della guerra c’erano solo due possibilità: costruire una città nuova, moderna o ricostruire la vecchia Varsavia, quella dell’epoca d’oro vissuta da Bellotto. Si optò per la seconda alternativa, per gli stessi motivi, di cui ho parlato in questo articolo, per cui tanti monumenti sono stati ricostruiti nel Novecento secondo la modalità “dov’era, com’era“.

Si tratta di una formula  che non è più contemplata dalla moderna prassi del restauro, perché dà luogo alla creazione di un “falso storico“. Tuttavia, quando c’è di mezzo l’identità di un popolo che ha bisogno di rimarginare le ferite profonde lasciate da un conflitto, si cerca di ricreare il passato scomparso, recuperare le radici, senza stare troppo a sottilizzare sulle questioni di etica architettonica.

Ma come fare a ricostruire un’intera città perduta? Ed ecco che entrano in gioco le vedute di Bellotto. La loro qualità e la loro fedeltà al reale erano tali da poterle usare come riferimenti sicuri. Questa è la chiesa del Sacramento.

Questa è la via Krakowskie Przedmieście.

Questa la Chiesa delle Visitandine.

Naturalmente, laddove si trattava di edilizia minore, la ricostruzione ha tenuto conto di standard abitativi più alti di quelli antichi, garantendo una maggiore salubrità ai quartieri più popolari.

La storia iniziata a Venezia nel 1722 si conclude dunque nel 1955, quando gran parte della città era stata ricostruita grazie alle vedute settecentesche. A suggello di questa rinascita, faticosa ma condotta con grande scrupolo, è arrivato nel 1980 l’inserimento del centro storico di Varsavia nel Patrimonio dell’Umanità da parte dell’Unesco. L’arte, insomma, può salvare il mondo, ma prima dobbiamo imparare a salvare l’arte…

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12 risposte

  1. Barbara ha detto:

    Articolo splendido e molto interessante che condividerò con le mie classi per approfondire ancora una volta l’aspetto della tutela del patrimonio culturale (art. 9, agenda 2030, Unesco, ICOM) soprattutto in questo periodo di guerra. Un’analisi simile l’ho fatta con il soggiorno studio a Wurzburg qualche anno fa.
    Grazie Emanuela

  2. Carme Miquel Catà ha detto:

    Com sempre, un article acurat i precís… La feina de paisatgistes barrocs ajudant als urbanistes del segle XX. Quina pena que l’home continuï destruint… gràcies Emanuela
    Come sempre un articolo attento e preciso… Il lavoro dei paesaggisti barocchi in aiuto agli urbanisti del ‘900. Che peccato che l’uomo continui a distruggere… grazie Emanuela

  3. Claudio Franchi ha detto:

    Mi sono chiesto spesso come avremmo potuto immaginare persone, città, oggetti, ma anche eventi del passato, se l’arte o anche il semplice grafito non avessero fatto da tramite grafico temporale. Effettivamente credo tanti aspetti sarebbero risultati irraggiungibili a mente o intuiti o idealizzati malamente. E chissà quanti stessi artisti hanno previsto a loro tempo l’importanza per le genti del futuro di possedere immagini, in molti casi dettagliate, come ad esempio, appunto, descritto da questo interessante post…

  4. Ugo Adamo ha detto:

    Grazie, Emanuela. Un bell’articolo, che mi invita a riflettere molto sull’importanza di tutelare l’arte, sapendola riconoscere. Oggi troppe opere, specialmente in pittura, vengono contrabbandate come arte: come del resto, anche opere di una nuova sperimentazione, di nuova forma possono apparire di nessuna attenzione.

    • Sì, è così. Occorre una certa distanza, soprattutto temporale, per capire se qualcosa sia arte o meno. Quella dei nostri giorni, tuttavia, lascia più di qualche dubbio.

  5. Maria Rosaria ha detto:

    Grazie, articolo molto interessante che trasmette conoscenza e tanto sentimento,

  6. Luisa ha detto:

    Parole toccanti le tue Emanuela. Quanta verità è quanta bellezza. Bellissime le vedute del Bellotto. Grazie per averci fatto riflettere, ancora una volta, sull’importanza dell’arte.
    Ma noi lo sappiamo bene.
    A risentirci al prossimo post.

  7. Marino Calesini ha detto:

    Interessantissimo