Il movimento fermo: gente che cammina
Due sono le sfide impossibili dell’opera d’arte: catturare lo spazio e congelare il tempo. E se per la prima gli artisti si sono inventati ogni forma di simulazione della profondità, per la seconda hanno cercato incessantemente di fermare il movimento, per suggerire un divenire anche nella totale immobilità dei pigmenti.
Il semplice atto di camminare, in particolare, è stato uno dei primi a essere rappresentato, assumendo nel tempo significati sempre diversi.
Il moto accennato dalle statue dei faraoni egizi è un lento incedere regale che forse non nasce dal desiderio di suggerire l’avanzare del sovrano ma dalla trasposizione tridimensionale della tipica raffigurazione dei piedi umani nella pittura parietale: per poter mostrare entrambi i piedi era necessario che uno fosse più avanti dell’altro, altrimenti se ne sarebbe visto uno solo.
Questa postura si riversa nell’arte greca più arcaica: i kouroi hanno sempre la gamba sinistra avanzata, la stessa delle statue egizie. E come quelle i pugni chiusi lungo i fianchi e un’espressione indefinita sul volto.
Camminano? No, neanche loro. Quel leggero passo in avanti non riesce a conferire dinamismo alla figura nemmeno guardandola di lato.
Un enorme passo avanti (anche in senso letterale) lo ha fatto il Doriforo. La statua simbolo dell’arte greca – quella dalle proporzioni perfette e dal chiasmo esemplare – sta proprio camminando. Ma non avanzando una gamba, ma lasciando indietro l’altra. Da un momento all’altro solleverà la sinistra da terra per fare un nuovo passo.
E così tante altre statue del periodo classico ed ellenistico.
La camminata degli imperatori romani è più trattenuta e solenne. Forse non stanno incedendo affatto ed è solo una posa che dà naturalezza.
Con il Medioevo l’atto del camminare non è più molto evidente. D’altra parte l’arte medievale, soprattutto quella di influenza bizantina, tende a un’immobilità ieratica che poco si adatta alle figure in cammino. Addirittura, anche quando la scena mostra persone che avanzano, il moto viene annullato dalla posizione divaricata dei piedi. È quello che accade alle processioni di vergini e martiri in Sant’Apollinare Nuovo, a Ravenna.
Alcuni personaggi però camminano sempre, anche nel medioevo, perché quel movimento è parte essenziale del significato che li accompagna. Mi riferisco ad Adamo ed Eva nella cacciata dal Paradiso terrestre. Loro sì che camminano, e anche a grandi passi.
L’espulsione dall’Eden rimane in testa tra le scene di figure che camminano anche nei secoli successivi.
Solo nell’Ottocento troviamo gente che cammina per altri motivi: c’è chi lavora…
… e chi passeggia.
C’è anche chi cammina per rivendicare i propri diritti: dall’avanzata impetuosa della Libertà che guida il popolo (1830) di Delacroix…
… alla lenta marcia dei lavoratori nel Quarto Stato (1901) di Pellizza da Volpedo.
In entrambi i casi la massa procede in direzione dell’osservatore rendendo l’azione più coinvolgente.
Poi, ad un certo punto, appare nella storia dell’arte un uomo solo che cammina. Non perché fugge, marcia, passeggia o va al lavoro. Cammina e basta. Cammina per prendere possesso del mondo. Cammina, dunque esiste.
È Uomo che cammina, di Auguste Rodin. Una scultura assolutamente inedita, creata nel 1905 usando parti di altre sculture: un torso acefalo e senza braccia e due gambe possenti.
Di lì a qualche anno Boccioni realizza un altro celebre uomo che cammina, ma stavolta ha un nome particolare: si chiama Forme uniche della continuità nello spazio (1913) e ciò che rappresenta non è più l’incedere di una persona ma la compenetrazione tra il corpo e lo spazio nel momento in cui il cammino diventa pura velocità. Sembra uscito da una galleria del vento, con quelle cosce scavate e i polpacci aerodinamici.
Di aspetto completamente opposto è l‘Uomo che cammina di Giacometti (1960). Scheletrico, allungato, eroso dalla vita. Cammina perché non può fare altro: il busto inclinato in avanti suggerisce una volontà che riesce persino a convincere le sottilissime gambe ad andare avanti.
Non è più un corpo virile che calpesta la terra né una figura plasmata dal vento. L’uomo di Giacometti, coi suoi piedi grandi e il suo essere esile, è un simbolo di resilienza. Quel corpo, su quelle gambe, non potrebbe stare in piedi, ma lui non lo sa e cammina lo stesso.
«Sento che ci vuole una energia straordinaria per far stare in piedi le mie figure, un istante dopo l’altro, c’è sempre nello spazio e nel tempo la minaccia di una caduta, della morte», afferma lo scultore.
Questo, dunque, è più di un movimento fermato. È una faticosa ricerca di equilibrio. Una precarietà che racconta l’uomo del Novecento come la solidità raccontava le dinastie dei faraoni.
Ci rappresenta.
Interessantissimo . Un appuntamento che attendo e non mi delude mai. Grazie –
Grazie sempre, Marino!
Il Quarto Stato mi ha sempre commosso, è come se fossi lì anch’io in quel preciso instante al fianco di persone che condividono con me un’idea di futuro.
Dunque il tempo non è congelato, per me è semplicemente un fotogramma che separa il prima dal dopo.
Mentre lo guardo, ho coscienza delle mie esperienze passate e immagino cosa possa essere il futuro.
Penso che l’atto forse involontario del pittore spieghi molto bene come “il tempo sia un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume” (J.L.B).
Grazie Emanuela.
Grazie a te, Marino.
Bello l’accostamento tra la resilienza e l’uomo o la donna di Giacometti.
Bellissimo il percorso tra i secoli e i capolavori che hai citato.
Grazie Emanuela.
Grazie a te!
C’è sempre tanto da imparare da questi splendidi post. Grazie
Anche questo come gli altri articoli consente di entrare nell’arte guidato da parole chiare e comprensibili.
Ti ringrazio, Gianfranco.
Mi commuove la dedizione nella ricerca e la cura del linguaggio, fra l’altro, semplice. Molto utile per un autodidatta, vecchio, come me. Utilissimo per gli studenti.
Grazie Alex. Rendere l’arte comprensibile è proprio il mio obiettivo.
Ma questo è un percorso iconografico o un cammino iconografico?
La seconda 😀